Perché l’Italia non cresce

Pubblichiamo Volentieri  il link a un interessante articolo di Lorenzo Bini Smaghi apparso sul Corriere della Sera. Questo è misurare la politica, misurare l’azione dei governi negli ultimi 10 anni e prendere atto dei risultati inconfutabili che questa ha prodotto. Noi siamo per una politica pronta a pagare le conseguenze dei propri fallimenti con la non ricandidabilità dei responsabili. Ci domandiamo quindi quanti degli attori politici degli ultimi dieci anni sono ancora sulla scena dopo questi risultati.

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Liste, Liste & Punti

In queste ore di febbrile negoziazione per la creazione di un nuovo governo, spuntano, come i funghi, liste su liste di “punti irrinunciabili”. I Cinque Stelle hanno 20 punti, il PD ne ha 5, il presidente Conte ha, a sua volta, presentato un elenco di temi su cui vuole impegnare il nuovo governo. Già nel recente passato avevamo assistito al varo di un “contratto di governo” tra Movimento Cinque Stelle e Lega, anche questo formato da una lunga serie di punti.

Come Italiani dovremmo, a questo punto, farci delle domande sul valore di queste liste e di questi accordi. In quanto tempo diventeranno carta straccia? Se i punti elencati sono degli obiettivi e non vengono raggiunti che succede? Chi ha scritto i punti di queste liste sa di cosa sta parlando ed è in grado di raggiungere gli obiettivi dichiarati?

La domanda, ancor più necessaria, è infine: Cosa distingue un proclama elettorale da un impegno di governo serio e circostanziato?


Fedeli al credo di questo Blog, crediamo che ci spossa essere una sola risposta: un impegno implica le seguenti cose:

  • Misurabilità: Basta ai proclami generici. Occorre avere degli indicatori misurabili associati all’obiettivo. Ridurre la disoccupazione, chi non lo vorrebbe, ma di quanto? Dopo quanti mesi?
  • Misurazione: Chi certifica il risultato? Chi misura gli indicatori? per noi la risposta è chiara: ISTAT e Corte dei Conti
  • Conseguenze: Basta farla franca, basta dire che è colpa dell’Europa, della congiuntura, delle posizioni astrali, dei boicottaggi, dei poteri forti. Vogliamo forze politiche che quando non raggiungono gli obiettivi dichiarati nelle loro “liste di punti irrinunciabili” rimettano gli incarichi senza indugi e senza cercare scuse.

Al posto di improbabili piattaforme per la democrazia diretta, introduciamone una, governata dalle istituzioni apolitiche e apartitiche come l’ISTAT e la Corte dei Conti, dove le forze politiche al governo saranno chiamate a depositare i loro obiettivi e gli indicatori ad essi associati. Introduciamo poi un meccanismo costituzionale che al mancato raggiungimento degli obiettivi  costringa un ministro, o l’intero esecutivo alle dimissioni.

Siamo estremamente sicuri e convinti che un tale meccanismo spazzerebbe via ogni forma di populismo, di impreparazione politica e di corruzione. Facciamo in modo che, se un contratto deve esistere, esso non sia tra due o più forze politiche, ma fra un governo ed il popolo italiano.Il contratto sarà finalmente vincolante, avremo le più alte istituzioni a fare da arbitro e non ci saranno finalmente più scuse.

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L’Italia che vorremmo

 

Si fa un gran parlare id cosa sia di destra e cosa di sinistra. Di valori in un mondo post ideologico, di onestà di sovranità e di governo dei cittadini. Si parla invece poco o nulla di ció che ci consente tutto ciò, il nostro tenore di vita, il nostro benessere, di ciò che racchiude in se il potenziale del nostro Paese ed il nostro futuro: la competitività dell’Italia.

Quale Italia dovremmo essere per garantirci un futuro di  giustizia sociale e benessere? Tralasciando utopistiche visioni che vorrebbero una giustizia sociale imposta dall’alto o rinforzata da redditi di cittadinanza e pensioni a 65 anni per tutti, magari con l’aggiunta di una tassazione a progressione lineare, possiamo dire che esistono delle condizioni tecniche e apartitiche sulle quali dobbiamo per forza di cose fondare il futuro della nostra Nazione. Eccole:

1 Produrre Valore. In questa Italia occorre dire chiaro e forte che non ha senso difendere genericamente il lavoro. Occorre difendere il lavoro che produce valore. Tutto il lavoro che non produce valore va riqualificato e reindirizzato alla produzione di valore. Da ciò discende che la difesa a spada tratta di “posti” di lavoro non ha alcun senso. Si lotti, una volta per tutte, per la qualificazione della forza lavoro e per la competitività fondata sulla meritocrazia. Questo netto cambio di indirizzo consentirebbe salari più alti, vita più dignitosa e maggiore competitività del sistema paese.

2. Una Pubblica Amministrazione che produce valore per il paese. La pubblica amministrazione e’ uno dei costi ricorrenti più alti per il sistema paese. Il valore prodotto deve essere commisurato al suo costo. Nessun dirigente della  pubblica amministrazione può essere giustificato in assenza di un margine sul costo della propria struttura e nessun obiettivo di risultato può essere pagato in assenza di marginalità in termini di valore prodotto rispetto al relativo costo.

3. Ridurre l’indebitamento. La competitività del sistema paese dipende dalla possibilità di investire. Investire in conoscenza, infrastrutture, nuove tecnologie, territorio ed ambiente. Un debito pubblico mostruoso, come quello dell’Italia, rende impossibili ulteriori investimenti e mina, alle fondamenta, la capacita’ di creare innovazione e di essere competitivi rispetto ai partner europei ed alle altre economie mondiali. Occorre fissare degli obiettivi di riduzione sistematica dell’indebitamento, occorre che la quota di riduzione prevista venga sistematicamente inclusa in ogni finanziaria ed occorre che gli obiettivi vengano rispettati da ogni governo fino alla riduzione del debito sotto una soglia ragionevole, ovvero sotto il 30% del PIL. Occorre infine modificare la Costituzione affinché mai più le forze politiche possano utilizzare delle risorse dello stato per comprare il consenso dei cittadini. Venga identificata la cifra massima del rapporto tra debito e PIL ed una procedura di deroga, accompagnata da un piano di rientro, che può essere autorizzata solo dal parlamento a maggioranza qualificata e dalla Presidenza della Repubblica.

4 Eliminare Mafia e Corruzione. Entrambe i fenomeni, facce diverse dello stesso degrado culturale, consumano una parte incredibile delle risorse del paese. Consumano reddito e capitale umano, degradano l’ambiente e la società condizionando la politica nelle decisioni strategiche per lo sviluppo della Nazione. La lotta a questi fenomeni deve essere senza quartiere. Lo stato deve dedicare i capitali recuperati da mafia e corruzione agli operatori che la combattono. Occorre fissare obiettivi per prefetti, magistrati e forze dell’ordine che prevedano ricompense commisurate ai capitali sequestrati ed ai danni evitati. Una parte di questi proventi sia investita in tecnologie per il controllo del territorio e per la sorveglianza sui crimini finanziari.

5. Università e Ricerca. Occorre identificare i Saperi Strategici sui quali puntare per il nostro futuro. Occorre identificare un percorso che premi chiaramente il merito di chi ha studiato con sacrificio. Si garantisca parità di accesso al sapere e merito a chi lo conquista. Si aumenti la differenza tra chi ha sacrificato anni nello studio e chi invece, pur avendovi accesso, ha scelto diversamente. Nessuno metta mai più sullo stesso piano arroganza e cultura, sapere e nozionismo da ‘social media’. Si bonifichi l’università dai potentati burocratici e si rendano scalabili tutte le cariche universitarie. Le carriere siano gestite, dinamicamente, in termini meritocratici basati sul riconoscimento paritetico internazionale. Nessuna carica Universitaria sia a tempo indeterminato, ma sia invece ri-assegnabile ogni 3 anni. Si separi una volta per tutte il management delle istituzioni Universitarie dalle attività di  ricerca e dall’insegnamento.

6. Giustizia. Una giustizia rapida ed efficiente è una base fondamentale per la competitività del Sistema Paese. I compensi di Giudici e magistrati siano commisurata alla velocità media dei procedimenti e le loro carriere al tasso di successo nei procedimenti in carico. Il tutto sia reso pubblico su base individuale e gestito dagli organi di presidenza dei tribunali. Occorre riformare i codici civile e penale, consolidare e semplificare la normativa in vari campi, dai reati contro il patrimonio, alla corruzione pubblica e privata fino al diritto del lavoro ed al diritto di famiglia. Occorre riformare la disciplina del ricorso in appello prevedendo, per chi vi ricorre, anche incrementi di pena anziché solo degli sconti, come nell’attuale disciplina. Occorre riformare la disciplina del ricorso in Cassazione prevedendo pesanti conseguenze per la carriera dei magistrati sconfitti in tale sede, un risarcimento pubblico ed il pagamento delle spese per chi ottiene ragione e, infine, costi elevati, fino a coprire il costo dell’intero procedimento, per coloro che vedranno confermata la sentenza o il cui ricorso verrà considerato infondato.

7. Patrimonio Pubblico e Cultura. Il patrimonio culturale Italiano è parte integrante del valore del Sistema Paese Italia. Ogni sforzo deve essere fatto per preservarlo e valorizzarlo. Occorre stabilire dei chiari indicatori in proposito, tali da essere comparati con quelli in uso presso le più evolute economie occidentali. La scala e la qualità del nostro patrimonio culturale non ha eguali nel mondo e la classe dirigente alla quale tale patrimonio viene affidato dovrà essere allineata ai migliori standard globali. Occorre integrare la gestione del patrimonio con le attività di ricerca pubbliche e private e occorre instaurare una conduzione manageriale del patrimonio, tale da poter avviare un ciclo per la generazione di valore, diretto ed indiretto, costante e misurabile.

8. Infrastrutture. Le infrastrutture sono un fattore abilitante chiave nel processo di creazione del valore. Occorre consentire ai cittadini ed alle imprese la partecipazione nell’ammodernamento delle infrastrutture del paese. Il modello di finanziamento privato delle infrastrutture con capitale di rischio va sostenuto ed incoraggiato mediante le leve fiscali. Occorre che i privati possano godere di una parte del valore generato dagli investimenti in infrastrutture. D’altro canto occorre tenere sotto controllo i costi ricorrenti derivanti dalla manutenzione delle infrastrutture correnti. Occorre individuare un piano per la riduzione sistematica del costo mediante opere mirate di dismissione. Per ogni infrastruttura pubblica relativa a trasporti, telecomunicazioni, scuola, sanità, edilizia pubblica, venga valutato un indice di economicità attraverso il quale si possa decidere per la dismissione.

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Democrazia: l’ultima Utopia?

Democrazia, l'ultima utopia?

La storia del secolo scorso ha consumato ideologie di ogni tipo, molte, direi tutte promettevano benessere e felicità duratura per il Popolo, tutte si proclamavano espressione del Popolo stesso e da questo legittimate. Abbiamo visto Fascismi, Comunismi, Socialismi, Nazismi e varie altre ideologie minori a sfondo etnico e razziale. Ma che dire della nostra Democrazia? Si proprio quella forma di “Governo del Popolo” che da molti è considerata la suprema forma di governo in grado di tradurre in azione la volontà popolare. Possiamo considerare la Democrazia una Ideologia? Ed è proprio vero, a conti fatti, che la Democrazia riesce a garantire il governo del Popolo e che essa  rappresenti, in definitiva, la miglior alternativa quando si tratta di forme di governo? Discutiamone.

La Democrazia è senz’altro una forma di governo, esistono infatti governi che si autodefiniscono “democratici”, repubbliche, inclusa quella Italiana, che si definiscono basate su forme di governo democratiche in cui il popolo è sovrano ancorché rappresentato da soggetti eletti dal Popolo stesso. La Democrazia è anche un ideologia incarnando essa stessa l’idea che la forma di governo perfetta sia affidata al volere del Popolo che liberamente decide del suo destino. La stessa idea include il fatto che chiunque sia libero di esprime il proprio voto e di affidarlo a un qualunque cittadino in grado di rappresentarlo. Fin qui tutto bene, siamo ancora certamente nella teoria, una zona franca in cui anche tutte (o quasi tutte, meno quelle basate sulle superiorità di diritto etnico) le altre ideologie avevano e hanno  uno sviluppo logico che dimostra come il Popolo può arrivare a vivere felice in una Nazione giusta. Ma arriviamo al punto, purtroppo anche la Democrazia come le altre ideologie va calata nella vita reale, nella nostra vita reale dove ci sono ingiustizie, storture, guerre, prosperità per pochi e parecchia corruzione. Notevoli indizi di fallimento se ci rapportiamo all’obiettivo iniziale. Siamo quindi pronti a dire che la Democrazia Reale ha fallito, come hanno fallito molte altre ideologie, come ad esempio il Comunismo o il Fascismo? Non possiamo certo arrivare a questa conclusione poiché le Democrazie Occidentali, pur con i loro difetti, non sono mai arrivate agli eccessied alle storture sociali e criminali del Comunismo Reale o del Nazi-fascismo. Ciò detto è indubbio che le  Democrazie reali siano ben lungi dall’incarnare quell’ideale di forma di governo perfetto che vorrebbe il Popolo sovrano e unico decisore delle proprie sorti.

Sembra quindi legittimo chiedersi in cosa la Democrazia ha fallito. Cosa la rende perfetta sui libri e viziata nella realtà di tutti i giorni? Certamente uno dei punti più dibattuti, quando si discute di forme di governo Democratiche, riguarda la rappresentanza. Chi ha titolo di rappresentare chi? Quali requisiti deve avere chi ci rappresenta? Fin dove si spinge il mandato di rappresentanza e quali poteri esso devolve ai rappresentanti. Possono i rappresentanti agire contro gli interessi di chi li ha votati? in questi “dettagli” si perde gran parte del vero significato dell’ideologia Democratica, al punto da farla apparire una vera e propria irraggiungibile e irrealizzabile Utopia. Uno dei principi base della rappresentanza democratica e che qualunque cittadino, raggiunta la maggiore età, può essere eletto in parlamento o può essere chiamato a svolgere una funzione in un governo democraticamente eletto. Il principio, nella sua semplicità, racchiude un sogno di libertà ed autodeterminazione in cui anche il cittadino più umile e sprovveduto (in altri tempi lo si sarebbe chiamato un “uomo qualunque”) può essere eletto ed avere una funzione più o meno rilevante nel dirigere la Nazione. Questo elementare principio si scontra però con un altro elementare principio democratico: “un rappresentante, eletto dal Popolo” non può andare contro gli interessi dei suoi elettori, di coloro che rappresenta”. Il nostro uomo qualunque invece puo’ e, nella nostra quotidiana realtà, lo fa con una certa frequenza. Un rappresentante eletto puo’ di fatto operare in modo avverso agli interessi dei suoi elettori, ciò può accadere certamente per dolo, ma sostanzialmente anche per “ignoranza funzionale” del rappresentante,  per un certo “non saper fare” che peri cittadini non è certamente meno dannoso dell’azione dolosa. Possiamo porre rimedio a questo “problema”? Possiamo in definitiva, pur preservando quella caratteristica di eleggibilità universale, assicurarci che gli eletti rappresentati operino esclusivamente nell’interesse comune e siano “funzionalmente abili” a svolgere il mandato loro affidato? L’unico meccanismo che ci potrebbe proteggere da questa stortura consiste nel misurare i benefici prodotti da ogni amministrazione e da ogni governo, da questo principio muove lo spirito di Msurarelapolitica.

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L’Europa dei Tecnocrati

 

Quale Europa?

Quale Europa?

Proprio ieri Matteo Renzi torna a scagliarsi contro un Europa senz’anima governata da Tecnocrati che pensano solo a infinite serie di numeri anziché alla reale condizione dei cittadini degli stati membri. L’obiettivo ultimo del nostro Presidente del Consiglio è quello di ottenere più flessibilità, elemento, a suo dire, indispensabile per favorire la crescita. La flessibilità serve a Renzi per poter fare degli investimenti a sostegno delle politiche economiche dell’Italia, politiche che non sono però del tutto esenti dal sospetto di essere dettate da uno  strisciante populismo da prima repubblica e dall’impellente necessità di sostenere imminenti prove elettorali.

Certo sul fatto che l’Italia abbia bisogno di capacità di investimento per potersi costruire un futuro migliore, nessuno ha dei dubbi! Ma per quale motivo questa possibilità ci è negata? Per quale ragione questi austeri Cerberi che governano l’Europa non concedono all’Italia i margini di manovra che chiede? La risposta è molto semplice e si basa su alcuni “peccatucci” che l’Italia si porta dietro da almeno 30 anni.

L’enorme debito pubblico è il primo, dare più flessibilità all’Italia equivale ad aumentare la probabilità che questo debito cresca ancora, cosa non accettabile per la terza economia dell’eurozona. L’Italia per i nostri partner europei è già una mina vagante che aspetta l’occasione giusta per deflaglare e mandare a fondo tutta la corazzata, Germania e Francia comprese.

Un altro problema è l’efficienza del nostro sistema bancario, tra i più “avari” nel supportare gli investimenti delle imprese ed al contempo con i più alti tassi di sofferenza in europa. Ciò configura un sistema altamente inefficiente, politicamente manovrato se non addirittura corrotto.

Il terzo fattore, che alcuni indicano addirittura come un punto di forza della nostra economia (!), è relativo alla geografia del potere economico che nel nostro caso risulta concentrato nelle mani di pochi gruppi a conduzione familiare a discapito di un azionariato diffuso. L’azionariato diffuso fungerebbe infatti da elemento catalizzatore nella distribuzione della ricchezza e nell’impiego dei capitali che giacciono improduttivi nei pingui depositi bancari Italiani (abbiamo i depositi bancari più pingui d’Europa, ma non dovremmo andarne fieri).

Scagliarsi contro i Tecnocrati ed ignorare questi fattori  porta tutti, e soprattutto i partner europei, a sospettare che il becero populismo Italiano sia ancora pesantemente all’opera e che sia, in fondo, il vero motore della politica Italiana. Le alternative al governo Renzi sono, sotto questo punto di vista anche peggiori, si limitandosi infatti a combatterlo con le stesse armi e sullo stesso terreno, su temi che scaldano gli animi ma non muovono paglia.

A sentire Matteo Renzi siamo finiti dentro ad un tunnel dal quale l’Europa ci impedisce di uscire! La realtà è purtroppo,un altra:  si siamo nel tunnel, ci siamo finiti per colpa nostra (si vedano le politiche economiche “da bere” degli anni 80 e 90)  e per colpa nostra ci restiamo perché continuiamo a fare le cose sbagliate.

Se l’Italia ha bisogno di investimenti mobilizzi allora i ricchissimi capitali che possiede nei depositi bancari e nel risparmio privato, favorisca l’azionariato diffuso, renda meno “immorale” la diffusione del benessere nella classe media e non penalizzi lo sviluppo dell’iniziativa privata con norme degne di uno stato comunista di vecchio stampo. Si rompa una volta per tutte il legame lobbistico tra i potenti gruppi familiari e la politica e si favorisca la decentralizzazione dell’economia, si supporti  fiscalmente il seeding da venture capital privato e si stringano alleanze per la formazione con campus Americani e Cinesi.

Bastano queste semplici mosse e dal tunnel ne usciamo da soli senza bisogno di scagliarrsi sui Tecnocrati che talvolta ci dicono solo una  verità che non vogliamo ascoltare.

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Leopolda: Propaganda o Meeting per le Idee?

Una "vecchia! stazione dove ci siamo già fermati

La Leopolda: una “vecchia” stazione dove ci siamo già fermati

Riparte oggi la Leopolda , stazione in cui si ferma e si compiace ogni anno la strategia di P.R. di Renzi, Boschi (o forse dovrei dire il contrario…) & Co. Le prime edizioni, benché avessero un retrogusto di vecchia riunione  di parrocchia, erano comunque animate da un spirito creativo con i tavoli tematici presso i quali si poteva ancora discutere a soggetto. Questa ultima edizione sancisce definitivamente il passaggio della Leopolda sotto la regia Boschiana e lo sconfinamento definitivo nella Propaganda più vetero partitocratica, quasi da “festa dell’amicizia” dei bei tempi andati. Già, festa dell’amicizia, non festa dell’unità, perché a conti fatti in questo si è tradotta la rottamazione di Renzi dei vecchi quadri dirigenti del PD. Lo scambio c’è stato, alla pari: un vecchio PD, nostalgico di Baffone, per una vecchia DC, nostalgica del modo “cerchiobottista” di fare politica, tanto in voga, nel nostro paese, negli anni 60-70-80. Cambiano ovviamente i mezzi di comunicazione, l’ondata “social” ha costretto tutti i partiti ad un diverso stile di comunicazione, ma il vecchio vizio del partito unico, che ha dentro di se maggioranza ed opposizione, più qualche correntina trasversale con i suoi distinguo, eccolo lì di nuovo, in pieno stile DC dei bei tempi andati. Gli altri? Oppositori del sistema, sfascisti, gente che vuole minare le basi della nostra convivenza… Per carità a guardarli da vicino gli altri non sono niente di che, una destra politicamente infima e culturalmente inesistente, un movimento 5 stelle politicamente molto immaturo, perso dietro ai vaffa e alle scie chimiche, abbandonato a 2-3 parlamentari “saccentini” che da portavoce del movimento a stento riescono ad articolare  qualche frase in un italiano sgrammaticato. Renzi e la Boschi sono riusciti a stringere all’angolo tutti questi, pur non essendo niente di meglio rispetto a loro e pur non portando alcuna novità politica nel panorama italiano, i 2 wonder boys hanno solo mascherato, dietro una finta iperattività politica, la voglia di ritorno alla normalità dell’elettore medio italiano, quell’essere “benpensante” insaziabilmente affamato di DC, di “a fra che te serve”, di “troviamo un compromesso che salvi la faccia a tutti”.

Oggi alla Leopolda si celebra il partito che si parla addosso, il partito che fa contenti tutti e che fa scontenti tutti, che dà conto alla sua maggioranza ed alla sua opposizione, che non è di destra e non è di sinistra, che non sta con l’Europa, ma non è contro, che condanna il terrorismo ma non reagisce, che sta dalla parte della gente ma difende le banche, etc etc…

Allora tanto per gettare sassi nello stagno, immaginiamo di poter discutere alla Leopolda di due o tre cose che potrebbero fare la differenza da qui in avanti:

  1. Misurare l’efficacia dell’azione politica con dei target misurabili su tutti i ministeri economici, target da cui far dipendere la fiducia ai ministri in carica (ci chiamiamo misurarelapolitica mica per niente…)
  2.  Supportare con i fatti le politiche energetiche per la rinnovabili.  Tutti gli impianti di rifornimento abbiano, per ottenere il rinnovo della licenza,  impianti di ricarica elettrica  veloce entro il 2020
  3. Entro il 2020 tutte le pubbliche amministrazioni utilizzino il telelavoro per almeno il 30% dell’organico
  4.  Gli ammortizzatori sociali siano disponibili solo alle aziende che, a seguito della domanda di cassa integrazione per motivi economici, licenzino i dirigenti responsabili delle aree che afferiscono al beneficio.

A Presto

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La Grecia, l’Italia, l’Europa, la Politica e la REALTA’

La “lettera” della Grecia all’Unione Europea è ancora fresca di stampa. La Grecia è stata così costretta a ribadire molti degli impegni presi con la “Troika” per risanare l’economia e portare avanti un programma di profonde riforme. In cambio ha ricevuto una misera dilazione dei tempi di implementazione delle riforme.

Come andrà a finire non è facile dirlo, verosimilmente la Grecia dovrà rinunciare ad alcuni proclami del suo nuovo Primo Ministro e dovrà ancora fare i conti con la scomoda realtà di essere un economia (troppo) strettamente interconnessa con quella dell’Europa e del mondo occidentale in generale.

vignetta-Italia-Grecia

Da tutta questa vicenda dovremmo però provare a ricavare degli elementi di riflessione fondamentali che ci possano indicare una futura strategia e un modo di fare politica del tutto diverso e basato sulla realtà dei fatti.

 Ecco alcuni elementi che sono chiaramente emersi dall'”affaire” Grecia e di cui dovremmo tenere conto anche nella realtà Italiana:

  1. Le elezioni, in Grecia come in Italia, si vincono facendo leva sui sogni e sulle frustrazioni delle persone (detto altrimenti becero-populismo televisivo)
  2. La politica ha a che fare, suo malgrado, soprattutto con la realtà economica di un paese
  3. L’economia di una Nazione non dipende solamente da variabili controllabili ed economiche (e non è certo questa la novità)
  4. La realtà economica di un paese dipende fortemente dalle sue radici culturali e dalle sue trasformazioni sociali
  5. La realtà economica e sociale di un Paese non si cambia dall’alto e non si cambia in 1 o 2 anni (nonostante i proclami di Renzi in Italia e di Tsipras in Grecia)
  6. Le riforme economiche non possono essere punitive
  7. Le riforme sociali devono precedere le riforme economiche
  8. Le riforme sociali richiedono un arco temporale di un ordine superiore rispetto alle riforme economiche
  9. Le riforme richiedono investimenti, anche quelle fatte per ridurre l’indebitamento
  10. Le riforme richiedono un approccio bilanciato e attentamente misurato
  11. Le riforme devono produrre risultati misurabili
  12. Le riforme richiedono “accountability” per le scelte effettuate

Questo elenco, sicuramente parziale, ci riporta al concetto centrale di questo blog: la politica misurabile che produce un effetto bilanciato sull’economia e sugli aspetti sociali legati alle necessità ed alle aspirazioni dei singoli.

  Un politica riformatrice non può operare con una visione parziale del mondo. Una riforma non è una cura sintomatica, ma un approccio clinico “sistemico” che mira al miglioramento generale delle “condizioni di salute” di una Nazione. Tagliare il debito alzando le tasse e riducendo i costi della pubblica amministrazione o del sistema pensionistico è una evidente forzatura che nel medio periodo porterà, esattamente come è successo in Grecia, ad uno sbilanciamento, drammatico e forse irreversibile, del sistema paese. Così come spesso agisce il buon medico di famiglia, bisogna certo intervenire sui sintomi, ad esempio bisogna fare scendere la febbre di un malato prima che questa possa causare danni irreparabili, ma al contempo bisogna ricercare e curare le cause dei fenomeni,  di quella febbre,  in modo da evitare che si possa ripresentare in futuro.

Curare le cause è spesso un operazione difficile e che non porta voti e consenso alla politica. Per questa ragione i nostri rappresentanti, inclusi i rappresentanti politici della comunità europea, mirano in modo molto più pragmatico a curare i sintomi ed a mostrare il volto di un medico rigoroso che per non fa morire il paziente è pronto ad amputare questa o quella parte del corpo.

Più volte abbiamo sottolineato che il sistema degli indicatori è un elemento chiave per indirizzare le riforme e per valutarne l’efficacia. Il sistema degli indicatori, per i motivi sopra esposti, non si può limitare alle variabili economiche, quali il PIL, l’indebitamento, la tassazione il tasso di disoccupazione e altri, ma deve comprendere e misurare diversi altri aspetti economici e sociali della vita di un Paese. Il miglioramento di una Nazione non è mai solo economico, ma comprende una diversa maturità sociale e culturale che è il terreno fertile per lo sviluppo.

Ma quando il malato è grave, come nel caso della Grecia, o in uno stato che desta preoccupazione, come nel caso dell’Italia, abbiamo veramente il tempo di agire sulle cause?  Certamente nel caso della Grecia e forse anche nel caso dell’Italia, alcune misure sono state prese per far scendere “la febbre” del malato, così come certamente si è andati oltre il lecito con certi medicinali rischiando di uccidere il malato senza curarlo veramente. In entrambe i casi la classe politica rimane refrattaria ad un serio programma di misurazione degli effetti delle riforme. Il concetto che ci sono da fare “La Riforme” e che chi le fa è nel giusto e va aiutato a continuare il progetto è di per se ridicolo. L’Italia come la Grecia non ha solo bisogno di Riforme, ha bisogno delle Giuste Riforme,  riforme che inducano il miglioramento, e che non siano cure che rischiano di uccidere il malato, riforme la cui efficacia possa essere misurata e provata al di la dei proclami politici, televisivi e populistici, riforme fatte da persone competenti e pronte ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, fino a lasciare il passo in caso di fallimento.

Il tempo è infine un fattore critico, nessuno può ignorare la sua importanza. Rifacendoci al paragone con il malato curato dal medico di famiglia, proprio come il medico di famiglia sappiamo che ogni guarigione richiede tempo. Ogni medico che dimette il paziente troppo frettolosamente rischia di aprire le porte ad una recidiva. Certamente il paziente non può restare inattivo, magari a letto, per un lungo periodo, poiché ciò avrebbe un impatto significativo sulla sua vita lavorativa e sociale. L’Unione Europea ha in questo senso invece più volte forzato la mano alla Grecia cercando di velocizzare le cure ed il processo di guarigione di quella economia. La recidiva si è, come previsto, puntualmente presentata in tutta la sua evidenza.

L’Italia ha dalla sua un miglior credito ed una situazione economica leggermente migliore, la quale le permetterebbe di “stare a letto” qualche giorno in più e di risolvere alcuni problemi fondamentali una vota per tutte. Sarebbe molto saggio, da parte dei nostri politici, usare questo tempo nel modo migliore per avviare quindi riforme di medio/lungo periodo delle quali si possa misurare l’efficacia in maniere inoppugnabile. Un percorso siffatto sarebbe la nostra migliore assicurazione contro gli inesperti medici dell’Unione Europea.

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Politici e Tecnocrati

Politici & Tecnocrati

Politici & Tecnocrati

      Eccoci di nuovo davanti al confronto senza fine tra politica e misurazione tecnica dell’efficacia dei provvedimenti. Premesso che da questo confronto non sono mai usciti ne vincitori ne vinti, resta la sensazione che il clima di sfiducia che si è creato tra una parte e l’altra, nello specifico tra il Governo Italiano, nella persona del suo Primo Ministro, e l’Unione Europea, nella persona del Commissario stesso dell’Unione, sia qualcosa che non produrrà benefici per nessuno, men che meno per noi cittadini, Italiani e dell’Unione Europea.

Più volte abbiamo ribadito che l’azione politica dei governi, democraticamente eletti, dovrebbe essere sottoposta al controllo istituzionale e pubblico dei risultati, per misurarne la reale efficacia e per sconfessare gli inutili populismi che per niente contribuiscono al un reale miglioramento della condizione generale delle nazioni.

In questa partita, ognuno deve però giocare il proprio ruolo. I politici facciano i politici, e quindi propongano soluzioni ai problemi del Paese, i Tecnocrati, responsabili del controllo sull’efficacia, si focalizzino sull’effettivo risultato, senza entrare nel merito dei provvedimenti e senza sostituirsi ai politici democraticamente eletti. In questo difficile bilanciamento va cercato il confine tra giusta discussione e il cattivo gusto che si riflette nelle critiche espresse, da una parte e dall’altra.

La separazione funzionale tra controllati e controllori è  certamente di primaria importanza, e sorregge una corretta assegnazione delle responsabilità, condizione necessaria per evitare quelle torbide acque in cui spesso naviga la politica e anche certa parte della società Italiana. D’altro canto va anche scongiurato il facile scaricabarile tra le parti, il famoso: non posso fare perché me lo impediscono…

I vincoli da parte dei controllori, in questo caso l’Unione Europea, non possono certo essere una scusa, ma semmai una garanzia per prevenire azioni sconsiderate sul piano (per ora) economico. Certamente i vincoli imposti dalla UE dovrebbero oggi essere più flessibili e non proteggere gli interessi di una parte (la Germania n.d.r.), consentendo, a fronte magari di garanzie politiche più alte, un margine di manovrabilità politica adeguato alla straordinaria crisi economica che stiamo vivendo. Condizioni eccezionali, d’altra parte, hanno sempre richiesto interventi eccezionali che in qualche modo non sempre vanno d’accordo con le regole ordinarie.  Per quanto riguarda le garanzie, i governi, ed in particolare quello Italiano, dovrebbero essere pronti a mettere sul tavolo la propria testa e rimettere il loro mandato al cospetto di risultati che si dovessero dimostrare inefficaci.

Il nostro governo insiste nel chiedere flessibilità all’Europa, ma cosa mette quindi sull’altro piatto della bilancia? Ha mai, nei fatti, proposto un piano di ripartenza e crescita economica della Nazione al successo del quale lega la sua esistenza?

Se i proclami del nostro Presidente del Consiglio e del nostro Governo fossero sostenuti da analisi tecniche all’altezza della situazione e fossero accompagnati da un chiaro impegno a lasciare in caso di fallimento, allora forse potremmo essere nella situazione di poter puntare il dito contro l’Europa,  rea di non concedere all’Italia la flessibilità e le deroghe richieste. Ovviamente il costume politico Nazionale, come sappiamo, è ben altro! Il potere è al di sopra di ogni cosa e di ogni giudizio nazionale e sovranazionale e quindi sempre e soprattutto al di sopra degli interessi generali!

 Da parte dell’Europa le cose, purtroppo, non sono migliori. L’Europa veste il doppio ruolo di regolatore, promulgando quindi leggi ed atti politici tramite il Parlamento Europeo, e di censore, obbligando al rispetto dei patti e dei trattati.

Tale  situazione è in totale disaccordo con una netta separazione dei ruoli. Le politiche europee influenzano i risultati politici ed economici degli stati membri, ai quali si chiede poi di intervenire per ottenere dei risultati operativi tali da rispettare i parametri stabiliti nei patti. Tutto ciò ha poco a che fare con il buon senso.

L’Unione Europea dovrebbe comportarsi con gli Stati Membri con il criterio del buon padre di famiglia, che dedica risorse ed attenzione ai figliuoli in difficoltà, in modo da garantire una serena esistenza a tutta la grande famiglia Europea. Soprattutto dovrebbe, una volta per tutte, riconoscere l’eccezionalità della situazione economica mondiale ed europea e adottare un insieme di norme straordinarie e di deroghe ai patti economici che possano aiutare le economie in difficoltà, tutto ciò negli interessi della stessa Unione Europea.

Sarà un bel giorno quello in cui potremo salutare governi Europei più responsabili, pronti a rimettere il loro mandato a fronte di mancati risultati, e una Unione Europea dal volto più umano, costruita su ideali di solidarietà e fratellanza tra i popoli e non su un freddo patto d’affari tra economie.

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Altro che superprotetti. Flessibilità del lavoro, dualismo e occupazione in Italia

Infatti il problema non è la facilità con la quale si può licenziare, in Germania ad esempio non e per niente facile licenziare qualcuno, in Francia ancor meno, il vero,problema è l’incertezza che il processo genera in Italia. Non serve rendere più facili i licenziamenti serve avere processi e costi certi!

Keynes blog

vignetta-articolo18

L’Italia non è un paese di lavoratori ipergarantiti. Al contrario, è quello che ha maggiormente liberalizzato il mercato del lavoro. Ma l’analisi dei dati OCSE chiarisce inequivocabilmente che le politiche di flessibilità non hanno avuto alcun successo negli ultimi 25 anni nel ridurre la disoccupazione in Italia e nell’Eurozona. 

di Riccardo Realfonzo 

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Articolo 18: La Certezza dell’Incertezza

Come e perchè andrebbe cambiato questo pezzo di Italia del Secolo Scorso

A Che Ci Serve?

A Che Ci Serve?

Se ne parla in continuazione, ad alcuni evoca terribili pensieri, ad altri la Fornero, ad altri ancora una barriera invalicabile, per molti resta un “signor sconosciuto”, qualcosa che ognuno immagina a proprio uso e consumo.

Per prima cosa facciamo un po di chiarezza: di seguito un paio di link che ci aiutano, brevemente ed in maniera abbastanza “neutra”, a capire di cosa stiamo parlando:

Eccolo quindi l’ “amico”, nato negli anni 70,  maggiorenne e vaccinato da un bel po.

La sua funzione era stata pensata in un contesto molto diverso dall’attuale,  nel quale un lavoro era “per la vita”, dove nessuno, in realtà, pensava ad un ricollocamento e ad una nuova vita lavorativa. Le cose sono evidentemente cambiate, e molto.

Oggi il cambiamento è la regola per quasi tutti i lavoratori, moltissimi hanno fatto 2 o più lavori nella propria vita e probabilmente continueranno a cambiare, per scelta o per necessità. In questo la nostra società, Italiana ed Europea, è sicuramente più avanti delle battaglie ideologiche che si sviluppano sull’articolo 18.

Di gente costretta a cambiare lavoro, che resta senza lavoro, che sceglie di cambiare occupazione e stile di vita, lasciando magari l’Italia, ne abbiamo, nostro malgrado, tantissima a riprova che l’articolo 18, in fondo,  nulla di così buono ci ha portato fino ad ora. Ma perchè allora tanto accanimento?

A nostro avviso i motivi vanno ricercati tra questi:

  • L’articolo 18  è “terra di nessuno” nell lotta “territoriale” e di potere tra Imprenditori e Sindacati
  • Un diritto acquisito, secondo le forze sindacali, non va mai ceduto, ad ogni costo
  • La flessibilità, secondo la classe imprenditoriale, dipende dalla facilità con la quale si può licenziare qualcuno e quindi (anche) dall’articolo 18
  • I vari governi che si sono occupati di questa legge non sono stati abbastanza focalizzati, agnostici e neutrali

Nei punti sopra elencati si intravvedono ragioni per modificare questa norma che è comunque vecchia di 30 anni e che in qualche modo crea problemi di competitività al Sistema Paese e a tutti gli attori del mondo del lavoro.

Si presti però attenzione: i problemi creati dall’articolo 18 non sono quelli portati dagli imprenditori (la flessibilità) e non sono neppure quelli indicati dai Sindacati dopo la recente riforma Fornero (la tutela dell’occupazione) .

La flessibilitá occupazionale non da vantaggio competitivo vero, anche la Germania, a volte maldestramente citata come un mercato del lavoro più flessibile, non basa la propria competitivitá sulla flessibilitá ma sulla qualitá e sulla innovazione. Ai nostri imprenditori non serve quindi più flessibilitá ma più professionalitá manageriale e più propensione all’investimento in innovazione.

per quanto riguarda  invece la tutela dell’occupazione, non è certo una piccla trincea come l’articolo 18 che può preservarla, basta guardarsi intorno per capire quanto detto articolo sia stato fino ad ora inefficace in questo senso.

L’articolo 18 va riformato poiché fonte di una problema. Questo problema è il nemico riconosciuto di tutti i sistemi economici: l’incertezza.

Grazie al nostro vecchio amico, l’ articolo 18, vi è incertezza per tutti:

  • Gli imprenditori non sanno come e quando terminerà una causa di licenziamento
  • La separazione per un licenziamento è quasi sempre conflittuale e nessuno sa di preciso cosa sarà in grado di ottenere
  • Il lavoratore non sa quando potrà ottenere giustizia e cosa otterrà nel momento in cui dovesse vincere la sua causa contro il datore di lavoro
  • Ciò che il giudice ordina spesso non è ciò che il vincitore di una causa di licenziamento vorrebbe: Il reintegro

Qualcuno è però sicuramente a favore dell’articolo 18 e lo è in modo incondizionato: gli avvocati!

Avvocati e Articolo 18 un Matrimonio Perfetto

Avvocati e Articolo 18 un Matrimonio Perfetto

Quali sono, quindi, dei criteri guida neutrali che ci possono permettere di migliorare tutto lo statuto dei lavoratori?

La risposta in fondo è abbastanza semplice, a patto di non volersi trincerare dietro delle posizioni meramente ideologiche.

Tutti i cambiamenti relativi all’articolo 18, ed in generale allo Statuto dei Lavoratori, dovrebbero essere improntati alla riduzione del male maggiore: l’incertezza.

Essa rappresenta un problema reale per i vari attori del mercato del lavoro ed è percepita come un grosso inibitore dagli investitori nel sistema paese Italia.

Ecco dunque alcuni dei principi cardine che dovrebbero praticamente, in modo neutrale, ispirare i cambiamenti:

  • Licenziare qualcuno, fatti salvi i motivi che determinano una giusta causa, è un danno per la collettività
  • Un accordo di separazione consensuale, prestabilito nei termini, è sempre da preferire ad un conflitto giudiziario tra le parti che introduce incertezza e rappresenta un costo per la collettività
  • Licenziare qualcuno deve essere possibile, ma deve avere un costo non trascurabile e certo
  • Il licenziamento va risarcito dall’imprenditore e supportato dalle politiche di sostegno e ricollocamento dello stato, come sancito dai principi costituzionali
  • L’abuso di pratiche di licenziamento deve portare a costi incrementali per le aziende che lo praticano

Dati i principi sopra elencati, proviamo ad immaginare un processo che permetta ad un imprenditore il licenziamento a “bassa conflittualità” di un dipendente. Sia l’imprenditore che il dipendente possono, con questo processo, contare su delle tutele e su tempi e risultati certi:

  • Un risarcimento è stabilito in termini di mensilità a seconda della motivazione per il licenziamento ed a seconda dell’anzianità lavorativa del dipendente (l’anzianità lavorativa considerata dovrà essere quella totale e non quella presso l’azienda corrente)
  • Il lavoratore può appellarsi a un arbitrato indipendente dai tempi certi che può solo variare l’entità del risarcimento
  • Il datore di lavoro contribuisce ad un fondo di categoria per il supporto al ricollocamento, il fondo non è assimilabile o cumulabile con altri fondi, quali quelli di previdenza complementare
  • Il contributo al fondo per il ricollocamento è fisso e prestabilito nel caso in cui il datore di lavoro non supera la percentuale dell 1% annuo di personale licenziato
  • Se il datore di lavoro supera la percentuale il contributo obbligatorio si incrementa automaticamente del 30% l’anno per i successivi 3 anni e, se la pratica continua, del 50% l’anno per i successivi 5 anni
  • Lo stato Italiano supporta il lavoratore licenziato mediante un fondo per il ricollocamento, mediante una tassazione fissa agevolata al 20% sul risarcimento dovuto dall’imprenditore, mediante sgravi fiscali garantiti per 2 anni sugli oneri derivanti dall’assunzione del lavoratore licenziato da parte di altra azienda e mediante il pagamento dei contributi pensionistici per il totale delle mensilità di risarcimento pagate dall’imprenditore. Il supporto garantito dallo stato dura per 12 anni, limitato alle politiche di ricollocamento (sgravi agli oneri per nuova assunzione e supporto al ricollocamento).
  • L’iter amministrativo per il licenziamento dura per un massimo di 3 mesi inclusi i provvedimenti amministrativi riguardanti il ricollocamento, la parte previdenziale e la parte fiscale.

In questo modo si potrebbero sconfiggere molti mali che oggi affliggono il nostro mercato del lavoro:

  • Si potrebbe eliminare quasi del tutto l’Incertezza garantendo termini e costi certi per le pratiche di licenziamento
  • Si potrebbe garantire un adeguato ed equo compenso per i lavoratori che perdono il lavoro
  • Si potrebbe impegnare concretamente lo stato a facilitare la re-immissione dei lavoratori licenziati nel mondo del lavoro
  • Si potrebbe disincentivare quegli imprenditori o datori di lavoro che usano la pratica del licenziamento per alzare artificialmente il turn-over del personale
  • I costi del  licenziamento porrebbero un ostacolo reale agli imprenditori che ne volessero abusare, garantendo maggiormente la stabilità del lavoro dipendente
  • Si potrebbe finalmente dare un costo alla flessibilità, la quale essendo un bene prezioso, va pagata il giusto prezzo
  • Si toglierebbe infine un alibi alle 2 categorie in perenne conflitto: Sindacati ed Imprenditori, garantendo i primi e dando certezze agli altri. Sarebbero così entrambe costretti a focalizzarsi sulla vera natura della non competitività del nostro paese.

Sbaglia quindi chi dice che l’eliminazione dell’articolo 18 rende un favore agli imprenditori, così come sbaglia chi sostiene che l’eliminazione provoca un danno ai lavoratori. Queste 2 posizioni, come abbiamo visto, hanno poco a che fare con il problema vero: la nostra competitività.

Abbiamo ancora bisogno di regole nel mercato del lavoro, abbiamo bisogno che esse siano adeguate ai tempi e non che siano allineate con una parte o con l’altra, ma soprattutto abbiamo bisogno di capitani coraggiosi con idee per vincere la guerra e di truppe che non pensino solo al rancio!

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